Il 13 Gennaio si è celebrato il referendum sul nuovo contratto che andrà a regolare il ciclo di produzione nella fabbrica FIAT di Mirafiori: il SI ha prevalso di misura su quanti hanno votato NO rispettivamente con il 54.7% e il 45.3% dei voti espressi. I giorni precedenti la votazione del referendum sono stati infiammati da un’accesa campagna elettorale che, come tutte le campagne elettorali, si è svolta con l’utilizzo di slogan semplicistici che hanno non permettono un’analisi oggettiva di ciò che accade. Infatti da un lato i fautori del SI hanno argomentato che si trattava di un accordo innovativo che avrebbe “modernizzato” le relazioni industriali del nostro paese, dall’altro i sostenitori del NO hanno posto l’accento sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, sull’aumento del carico di lavoro e sulla negazione della rappresentanza sindacale per le organizzazioni non firmatarie dell’accordo. Sintetizzando le ragioni della FIAT sono le seguenti: siamo un’impresa multinazionale operante in un contesto globale e che deve competere in un mercato fortemente competitivo per cui necessitiamo di condizioni favorevoli per effettuare gli investimenti. Condizioni che riscontriamo in altri paesi: in Serbia il nuovo stabilimento FIAT ha potuto fruire dei finanziamenti congiunti del governo locale e della BEI (Banca Europea degli Investimenti) mentre negli Stati Uniti al prestito elargito dallo Stato si è sommato l’impegno economico del sindacato statunitense reso possibile da un sistema differente dal nostro. Il nuovo contratto sottoposto a referendum è necessario per poter aumentare la produttività e la saturazione degli impianti produttivi. Risponde la FIOM: l’aumento della produttività non si realizza diminuendo i diritti dei lavoratori ma, al contrario, creando nuovi modelli e aumentando gli investimenti. In altre parole il peso della competizione internazionale non si può scaricare sugli operai che lavorano alla catena di montaggio e percepiscono uno stipendio tra i più bassi d’Europa, quasi la metà di un collega inglese, tedesco, o danese. Inoltre, argomenta sempre la FIOM, il referendum si svolge in un clima ricattatorio che non rende possibile agli operai esprimere liberamente la propria idea, pena la probabile perdita del posto di lavoro.
A livello emotivo non si può che essere dalla parte dei più deboli: gli operai che sono stati costretti dalla circostanze a votare un referendum che oggettivamente peggiora le loro condizioni di lavoro. Allo stesso tempo però credo sia importante analizzare quanto accaduto all’interno di un quadro complessivo più ampio. Il nostro paese negli ultimi 15 anni ha perso la capacità di produrre ricchezza che invece lo aveva caratterizzato nel periodo passato: cresciamo poco e lo facciamo meno di altri paesi. Il nostro reddito procapite negli anni ottanta era superiore alla media dei 15 paesi CEE mentre oggi è inferiore alla media dell’Unione Europea a 27 membri. C’è qualcosa che non va, evidentemente. Il problema credo possa individuato nell’età della nostra classe dirigente politica ed economica: il nostro è un paese di vecchi, gestito da vecchi che adotta politiche per i vecchi (evito accuratamente il politically correct: i vecchi sono vecchi e le prostitute sono prostitute). Ora questo realtà si riflette nella vita di ogni giorno: il precariato coinvolge quasi esclusivamente giovani e donne mentre gli ammortizzatori sociale beneficiano solamente coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato che, appunto, non sono giovani. L’elenco potrebbe continuare. Che fare allora? Bisogna cambiare il sistema. Primo punto, occorre una modifica radicale del sistema di welfare state: estensione universale del sussidio di disoccupazione, senza discriminare per tipologia contrattuale; introduzione di un salario minimo, eliminazione della miriade di contratti “flessibili” a favore di un contratto unico di primo impiego a tutele crescenti nel tempo. Tutto ciò da finanziarsi con lotta all’evasione, l’aumento delle aliquote impositive sulle rendite finanziare che oggi sono al 12% e l’abolizione degli attuali strumenti quali cassa integrazione e cassa integrazione in deroga. Inoltre si dovrebbero prevedere misure di sostegno per l’aggregazione delle piccole e medie imprese e finanziamenti rivolti ai tanti giovani che hanno idee valide ma non i capitali necessarie per realizzarle. Quanto accaduto a Mirafiori e a Pomigliano prima deve farci prendere coscienza che il mondo è cambiato e che se vogliamo mantenere il tenore di vita dei nostri padri il nostro paese deve riprendere a crescere recuperando il terreno perduto.
L’Italia ha enormi potenzialità dobbiamo impegnarci per cambiarlo in meglio perché all’estero il nostro paese non può più essere Berlusconi e Bunga Bunga ma tornare a rappresentare la cultura, l’arte, la bellezza e la qualità.
Alex Paiella