Questo articolo è vietato ai minori di 18 anni. Proprio così. I minori non possono iniziare la lettura perché l’argomento trattato e i contenuti della narrazione non sono adatti ad un pubblico di minorenni. I ragazzi più sensibili e quanti tra loro pensano che andare all’università sia un buon modo per migliorare la prospettiva di vita propria e di chi gli sta intorno potrebbero rimanere traumatizzati. E fare scelte di cui l’autore non vuole assumere alcuna responsabilità.
I loro genitori e i nonni invece possono proseguire la lettura. Sono adulti e vaccinati. Anche in questo caso, comunque, se ne sconsiglia l’esercizio a quanti pensano che siamo ancora un paese moderno. E l’Umbria sia una regione senza gravi problemi. E che possiamo continuare così. Nel caso, infatti, potrebbero avere brutte sorprese.
Soddisfatti gli obblighi di legge, possiamo iniziare.
Qualche mese fa un istituto di ricerca ci ha commissionato uno studio che aveva come oggetto l’evoluzione delle prospettive lavorative dei giovani negli ultimi 15-20 anni. In particolare ci interessava sapere quanto fosse conveniente investire in istruzione da un punto di vista economico. In effetti, i nostri genitori ci hanno sempre raccomandato che studiare sarebbe stato il modo migliore per trovare una buona occupazione e ottenere un reddito da lavoro sicuro. Allora ci siamo posti una domanda.
Possiamo raccomandare altrettanto ai nostri figli?
A questo scopo sono state raccolti informazioni sui salari che sono percepiti dai laureati in Italia e sul tipo di lavoro che essi svolgono. Il periodo di tempo a cui abbiamo fatto riferimento per la nostra analisi va da inizio anni ‘90 fino alla seconda metà del decennio in corso. I dati utilizzati sono quelli della Banca d’ Italia e dell’ Istat, quindi fonti statistiche ufficiali. Insomma non ci siamo inventati niente.
Detto questo, abbiamo classificato le occupazioni dei laureati in tre categorie: posti di lavoro di “buona qualità”, posti di lavoro di “media qualità” e posti di lavoro di “cattiva qualità”. In particolare, i posti di lavoro “buoni” sono quelli esercitati dai legislatori, dai professionisti, dai managers e dirigenti, professori ecc. I posti di lavoro di “media” qualità sono associati a professioni impiegatizie, operai specializzati, assistenti tecnici e assimilati. I posti di lavoro “cattivi” sono quelli che richiedono mansioni dequalificate, operai non specializzati, manovali, ecc.
In questa sede tralasciamo di raccontare quello che è emerso per l’Italia nel suo insieme. Già di per sé sconfortante. E concentriamoci sulle evidenze che sono venute fuori nel nostro territorio. In Umbria. A questo proposito due risultati ci sembrano degni di nota. E di denuncia.
Primo. Tra il 1993 e il 2006 nella nostra regione il salario guadagnato da chi è in possesso di un titolo di laurea è diminuito di circa il 20% rispetto al salario percepito dai lavoratori senza alcuna istruzione o con al massimo una licenza elementare. Proprio così. Mentre in tutto il mondo industriale si osserva un aumento sostanziale dei salari di coloro che hanno un livello di studio elevato, nel nostro paese e nella nostra regione avviene il contrario! Come è possibile?
Il motivo lo troviamo nell’altro risultato della nostra analisi.
Quello che segue.
Ebbene. Nello stesso periodo di tempo la proporzione di laureati che sono occupati in posti di lavoro di “buona qualità” è diminuita di ben 23 punti percentuali! Dove sono finiti i laureati che non hanno più trovato lavoro in quei posti che garantiscono salari più elevati e migliori prospettive di carriera? Beh, come è facile intuire, sono finiti nei posti di lavoro di peggiori. Nello specifico, è aumentata di oltre 14 punti percentuali la quota di laureati nei posti di qualità media e di 8 punti percentuali la quota di laureati che si sono ritrovati nelle occupazioni più dequalificate!!
In particolare nel 1993 i laureati erano occupati per una quota pari al 72% nei posti di lavoro migliori, per il 27% nei posti di lavoro di media qualità e per l’1% circa nei posti di lavoro più dequalificanti. Nel 2006 la quota dei laureati che si sono ritrovati in posti di lavoro di buona qualità era solo del 49%, mentre la percentuale di laureati occupati nei posti di lavoro di media qualità era arrivata ad un livello del 41% e quella nei posti di cattiva qualità aveva raggiunto il 9% circa. Questi numeri non hanno pari o quasi nel il resto del territorio nazionale (Nord, Centro, Sud e Isole). E già l’ Italia costituisce un eccezione negativa rispetto agli altri paesi industriali.
C’è una morale della storia? Si, secondo noi. Anzi ce ne sono due. Una per il ricercatore, l’altra per il politico.
Per quanto riguarda il ricercatore, i nostri risultati confermano che per risolvere i problemi strutturali che affliggono il mercato del lavoro regionale (e nazionale) si deve guardare soprattutto alle imprese, e non ai lavoratori. Il sistema delle imprese infatti è troppo frammentato e specializzato in settori tradizionali, a basso contenuto tecnologico. Gli imprenditori tendono a competere sulla riduzione del costo del lavoro. E non sull’innovazione, sulla produttività e nel capitale umano dei propri dipendenti. In queste condizioni le qualifiche dei lavoratori più istruiti vengono sempre più spesso penalizzate all’interno delle aziende. Tipicamente attribuendo loro mansioni e compiti lavorativi dequalificanti nel breve periodo e svilendo le prospettive di crescita professionale nel lungo periodo.
Certo. Esiste anche un problema serio per ciò che concerne la composizione dei nostri giovani laureati per aree disciplinari. Senza dubbio in questo paese il numero dei laureati in materie tecniche e scientifiche è troppo esiguo rispetto a coloro che conseguono un titolo di laurea in discipline umanistiche o professionali. In più non possiamo ignorare le difficoltà del sistema universitario. Ma focalizzarci su questi aspetti e ignorare le caratteristiche strutturali della nostra imprenditoria è come invertire il predicato con il soggetto.
Anche gli ingegneri fanno sempre più spesso gli impiegati. Se gli va bene.
Per quanto riguarda il politico, le cose sono ben più complicate. Non basta una diagnosi corretta dei problemi. La politica inizia dove finisce il ricerca. In particolare la politica economica richiede innanzitutto una visione generale della società, un ordine di priorità negli obiettivi e strumenti efficaci per modificare le cose nella direzione desiderata.
In questi mesi il Dipartimento regionale dello Sviluppo economico IDV ha prodotto uno sforzo in tal senso, grazie all’aiuto di tanti amici che vi hanno collaborato. Quello che ne è venuto fuori è un tentativo di “costruzione”, un insieme di proposte concrete di politica economica regionale con l’unico intento di migliorare le cose nel nostro territorio. A partire dalla grave situazione che abbiamo appena descritto.
Nella nostra visione l’Umbria non può scegliere un percorso diverso da quello dello sviluppo economico e di una più equa redistribuzione delle opportunità. Il sistema delle imprese incontra difficoltà sempre maggiori nel produrre ricchezza sotto forma di innovazione, buona occupazione e reddito da lavoro. La disuguaglianza sta crescendo in modo preoccupante tra le persone, le generazioni e le istituzioni del nostro territorio. Il freno dello sviluppo e la disuguaglianza sono fenomeni che si alimentano l’uno con l’altro. Se la torta da spartire diventa sempre più piccola, mangia solo chi si è seduto prima a tavola. Gli altri stanno a guardare.
Ma per quanto tempo ancora? Non si può più aspettare. E’ necessario far crescere la torta e allargare il tavolino.
Come? Lo abbiamo detto già in altre occasioni. Secondo noi è necessario attivare nuova politica industriale coordinata a livello regionale che aiuti le imprese più piccole a fare rete, che incentivi gli investimenti nelle nuove tecnologie e che favorisca gli imprenditori che operano nei settori che offrono maggiori possibilità di sviluppo e di buona occupazione (economia verde, biomedicina, ecc) . Gli strumenti normativi ci sono, le idee pure (consorzi interuniversitari per la costituzione di centri di ricerca avanzati, incentivi regionali alle Fondazioni bancarie per finanziare investimenti produttivi nel territorio, la costituzione di un authority per il credito alle imprese innovative per migliorare l’efficienza del sistema dei fidi, ecc, ecc). Non servono grandi risorse finanziarie, serve la volontà politica di affrontare questi nodi.
In questa sede non intendiamo entriamo nei dettagli. Lo faremo in un prossimo futuro. Ciò che ci sembrava importante è condividere lo spirito che ci ha mosso con gli iscritti all’ IDV e con quanti sono interessati a migliorare le cose.
Un saluto a tutti, Andrea Ricci
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