Anche se molti non lo ricordano quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della prima “marcia della pace”. Il 24 Settembre 1961, Aldo Capitini, socialista liberale, e Giorgio La Pira, cristiano sociale, marciarono con pochissimi altri coraggiosi da Perugia ad Assisi, per dire un secco no alla pratica più oscena e crudele dell’umanità: la guerra. Alcuni li chiamarono utopisti, altri li definirono perfino pazzi. Qualsiasi cosa fossero, tale manifestazione conta oggi la partecipazione di decine di migliaia di persone e si è affermata, a livello nazionale ed internazionale, come uno dei momenti più importanti di attivismo del movimento pacifista. Tutto questo nonostante l’isolamento, umano e politico, che i nostri due sognatori furono costretti a subire. Negli stessi anni infatti, Fabrizio Fabbrini, il primo obiettore di coscienza cattolico, era condannato a sette anni di carcere per essersi sottratto alla leva. Allora come oggi essere pacifisti non è una scelta facile: in molti paesi chi rifiuta il servizio militare è punibile con pene severe, mentre anche negli stati più civili chi si definisce obiettore di coscienza o manifesta contro la guerra è spesso tacciato dall’opinione pubblica di antipatriottismo o, peggio, di tradimento nazionale. I critici più generosi giudicano il pacifismo un’ideale visionario, inconciliabile con la realpolitik praticata da tutti i governi mondiali.. Quella stessa realpolitik per cui già Aristotele diceva: facciamo la guerra per avere la pace. Probabilmente uno dei primi tentativi di legittimare e rendere lecita la pratica dei conflitti. Certamente non l’ultimo, visto che in ogni epoca gli uomini hanno cercato di definire il concetto di guerra giusta e al tempo stesso di stabilirne la legittimità, attraverso regole più o meno esplicite, e comunque sempre violate. L’obiezione mossa ai pacifisti si basa sul principio che esistano conflitti leciti, ad esempio quelli in risposta a politiche di aggressione, o come le sollevazioni per abbattere governi dittatoriali. Chi infatti avrebbe il coraggio di definire illegittima la nostra guerra di Liberazione? Il problema però va spostato su un’altra dimensione: il pacifista non parteggia per uno dei contendenti, il pacifista condanna la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti tra nazioni, il pacifista lotta democraticamente perché cessino le violenze, il pacifista si mobilita affinché si affermi il principio che le controversie internazionali siano mediate da organismi di arbitrato, il pacifista manifesta perché inizi una vera politica del disarmo. Insomma, oggi come nel passato, alla base del pensiero pacifista vi è la condanna dei conflitti, della loro brutalità e delle azioni atroci ad essi collegati. Poiché è l’atto in sè per sè che deve essere rifiutato e bandito dalle pratiche umane. La nascita dei movimenti per la pace, quindi, pur essendo principalmente un fenomeno moderno, si interseca in un percorso, quello della nonviolenza, presente in molte religioni e in diversi pensatori laici. È comunque nell’ultimo decennio, anche a causa delle guerre in Iraq e in Afghanistan, che il fronte del no alla guerra è cresciuto notevolmente, dimostrandosi capace di organizzare grandi manifestazioni e di muovere coscienze in tutto il mondo. Nelle ultime settimane, ancora una volta il nostro paese, ha deciso di prendere parte all’ennesimo conflitto, quello libico, nonostante l’articolo 11 della nostra costituzione dichiari solennemente che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. I teorici della legittimità dell’intervento giustificano questa guerra con le ordinarie motivazioni: bloccare lo sterminio dei civili, impedire al dittatore di restare al potere, rendere innocua la minaccia nei confronti dell’occidente. Se si dovesse intervenire militarmente ogni volta che si verificano queste condizioni dovremmo essere trascinati in una serie infinita di operazioni belliche, poiché ancora oggi moltissimo governi non rispettano i basilari diritti dell’uomo e potenzialmente rappresentano una minaccia tanto per i propri cittadini, quanto per i paesi occidentali. Viceversa dalla nascita dell’ONU ( e già in precedenza con la Società delle Nazioni) sono numerosissimi i casi in cui si è deciso per il non intervento, anche in situazioni in cui c’erano tutti i presupposti per giustificare un intervento militare. Nel 1994 , ad esempio, in Ruanda, l’ultimo atto di una sanguinosa guerra civile, fu il genocidio che costò la vita ad 1 milione di esseri umani. La comunità internazionale non mosse una paglia di fronte a questo abominevole massacro: al di là di pochi caschi blu inviati per supportare l’espatrio di cittadini belgi o francesi, non fu mai presa seriamente in esame la possibilità di azioni militari contro l’esercito hutu o i miliziani dell’interhamwe. A questo caso potremmo aggiungere quello della Somalia, in cui la missione “Restore Hope”, guidata dagli USA, si ritirò con un nulla di fatto, senza risolvere alcuna questione di ordine politico, militare e umanitario. Oppure ancora il Sudan, la Cecenia, il Mozambico, la Nigeria etc etc. La verità è che la decisione di intervenire o meno in un determinato scenario è dettata da criteri di carattere economico e geopolitico, che assolutamente nulla c’entrano con i principi filantropici .Tutto questo anche a causa dell’incapacità degli organismi internazionali di arginare le controversie tra stati: svuotati di reali capacità di mediazione e intervento, bloccati da veti incrociati e da delicatissimi equilibri globali, essi appaiono completamente ingessati e ripiegati su se stessi.Il cuore del problema è proprio questo: finché non ci sarà un organismo sovranazionale autonomo, dotato di sufficiente autorità e potere da sanzionare quegli stati che non rispettano i diritti della persona e gli accordi stipulati, sarà assai complicato risolvere le infinite contese tra paesi e guidare le transizioni alla democrazia. Perciò occorre modificare la struttura dell’ONU, annullando o quantomeno limitando il sistema dei veti, rendendo l’organizzazione indipendente dalle scelte di politica estera dei singoli membri e potenziando il corpo dei caschi blu, da impiegare anche in azioni di contrasto al contrabbando di armi. Al tempo stesso va rafforzato il ruolo dell’UE, costruendo una linea diplomatica comune tra gli stati aderenti, alla cui base stiano la difesa dei diritti umani, la lotta alla proliferazione degli armamenti, la fine delle alleanze militari del XX sec.
Nel corso della crisi libica, purtroppo, i principali paesi dell’UE hanno fatto esattamente il contrario di ciò che sarebbe stato auspicabile: agendo come un gruppo di cani sciolti hanno riaffermato la volontà di mettere al primo posto gli interessi nazionali rispetto a quelli della confederazione. In particolare tra tutti il governo italiano, nel corso delle ultime settimane, si è distinto per inettitudine e falsità, dando prova ancora una volta di tutte le sue peggiori caratteristiche. Il doppiogiochismo nei confronti dell’ex alleato ed amico Gheddafi e soprattutto della popolazione libica insorta, l’assoluta ininfluenza nelle decisioni di UE e Alleanza Atlantica, l’incapacità di arginare l’emergenza immigrati. Allo stato attuale dei fatti, con le operazioni militari in mano alla NATO, è augurabile che le diplomazie coinvolte nella crisi lavorino per un cessate il fuoco immediato e affinché la risoluzione dell’ONU , con cui si decretava l’instaurazione di una no fly zone, venga rispettata e non utilizzata come parafulmine per un’ operazione bellica su vasta scala.
Forse nel nostro manifestare per la pace, nel rifiutare la violenza, nella speranza che si giunga ad un’armoniosa convivenza tra i popoli, si nasconde veramente il nostro essere degli illusi o dei pazzi. Tuttavia come diceva Aldo Capitini:
“Sarà pur bene che qualcuno lo faccia: il fuoco viene sempre acceso da un punto”.
Matteo Minelli