Venerdì 28 Gennaio il Dipartimento Giovani IdV dell’Umbria ha aderito alla sciopero generale dei metalmeccanici indetto dalla FIOM-CGIL, partecipando attivamente alla manifestazione regionale tenutasi presso il centro FIAT di via Piccolopasso.Come partito e come giovani abbiamo infatti ritenuto doveroso portare il nostro sostegno ai lavoratori e alle lavoratrici di questo settore, i cui diritti, mai come oggi, sono rimessi in discussione e sottoposti ad una violenta tentativo di contrazione.
Ci pare doveroso tuttavia ad una settimana di distanza aprire una serie di riflessioni sul tema della condizione del lavoro, in particolare quello giovanile, all’interno dell’attuale quadro economico, e sul ruolo che il sindacato è chiamato a ricoprire nella modernità.Negli ultimi vent’anni UE, associazioni di lavoratori e imprenditori, oltre che numerosi giuslavoristi ed economisti hanno sostenuto la necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro, sostenendo che ciò avrebbe comportato un aumento dell’occupazione e della competitività sui mercati internazinali.Nel nostro paese questo bisogno si è tradotto in una serie di provvedimenti legislativi, volti a sradicare il quadro etico e normativo sul quale si basava il mondo del lavoro. Tra i principali ricordiamo il “protocollo d’intesa” tra governo e parti sociali del Luglio 1993, il pacchetto Treu del 1997 e la legge trenta del 2003.Con tali palesi deregolamentazioni allo statuto dei lavoratori(entrato in vigore il 20 Maggio 1970, e tuttora da considerarsi il punto più avanzato della legislazione in materia di occupazione), sono stati introdotti: il lavoro interinale e a chiamata,quello in affitto e in somministrazione, l’orario pluriperiodale,l’illimitata replicabilità di contratti flessibili, l’abolizione della norma che vietava limiti di contenimento all’impiego dei contratti atipici e quella che vietava l’interposizione di soggetti terzi tra lavoratori e impresa.Due gli assunti a sostegno di tali provvedimenti, il primo di carattere ideologico sarebbe quello secondo cui il lavoro, inteso almeno nelle sue forme classiche, nella contemporaneità è ormai un arcaismo, un retaggio del passato e che presto le trasformazioni introdotte dalle nuove tecnologie(ICT) contribuiranno inesorabilmente a far scomparire alcune forme di occupazione, in particolare quelle a qualificazione medio-bassa e ad alta intensità di forza-lavoro.Il secondo invece è il principio secondo il quale il nostro sistema paese non sarebbe adeguatamente efficiente, produttivo e competitivo, per reggere l’impatto delle economie delle nazioni in via di sviluppo.
(Punto primo)In realtà, perfino da studi di enti governativi, emerge il quadro opposto: nel nostro paese, e in molti altri dell’UE, si assiste a situazioni diffuse di densificazione e intensificazioni dell’occupazione( 7 mln gli individui che praticano un “labo-intensive job”), correlate ad altri fenomeni assai preoccupanti quali l’immissione nel mercato del lavoro di fiumi di soggetti ad alta qualifica professionale, che non trovando spazi occupazionali nel proprio settore, si riversano in altri campi( naturalmente meno remunerativi e privi di competenze specifiche), contribuendo a far diventare la forza-lavoro una merce abbondante e di conseguenza di scarso valore.Il risultato, dal punto di vista sociologico, di questo quadro economico e normativo, è la nascita della società flessibile, e della dimensione della precarietà.Nel nostro paese i lavoratori flessibili , tra regolari e irregolari, pubblici e privati, sono ormai più di 11 milioni, e visto il trend degli ultimi anni andranno sicuramente aumentando, e di pari passo ad essi aumenterà la disoccupazione giovanile, già ad oggi ai massimi storici.Dovrebbe essere perciò pacifico che tale società non soltanto non contribuisce al benessere collettivo, ma comporta anche la rottura di gravissimi equilibri individuali.La condizione sociale umana che deriva da una sequenza di contratti atipici di durata determinata implica per il soggetto che vi è sottoposto semplicemente insicurezza, che partendo dal mondo professionale investe l’intera esistenza.Il lavoratore contemporaneo subisce i costi umani, sociali, familiari della flessibilità; paga in termini di carriera, percorsi formativi iniziati e interrotti, di fatica fisica, di stress mentale ed emotivo, di totale e supina dipendenza dalle decisioni dell’impresa.Anche nei paesi europei, assai più civili e avanzati del nostro, nei quali la flessibilità è coniugata con la sicurezza sociale( flessi-sicurezza), il prezzo che il lavoratore paga, non più nell’ambito salariale ma in quello etico e sociale, resta assai oneroso.(Punto secondo)La flessibilità, che dovrebbe permetterci di aumentare competitività e livelli occupazionali, è un fenomeno riconducibile al più generale processo di globalizzazione, e in conseguenza di ciò secondo alcuni sarebbe inarrestabile.É infatti vero che l’eccesso di manodopera a basso costo, priva di diritti, immessa nel mercato mondiale da paesi in via di sviluppo, nei quali non esiste alcuna legislazione del lavoro, ha provocato la perdita di gran parte del potere contrattuale, di cui godevano i lavoratori occidentali.Ormai da circa vent’anni le 100.000 principali corporations transnazionali, che realmente controllano l’economia globale, lavorano affinchè l’incontro tra salari e diritti degli occupati nei paesi occidentali e quelli dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo si incontrino nel punto più basso.Dal 2000 OECD watch , pubblica un rapporto sulle violazioni dei diritti umani praticati dalle multinazionali nei paesi dell’ormai ex terzo mondo, spesso all’interno di progetti economici finanziati direttamente dalla Banca Mondiale o dal Fondo Monetario Internazionale.Dovrebbe perciò essere chiaro che nell’economia mondiale per come è stata strutturata negli ultimi vent’anni, non si possa più parlare di scontro tra sistemi-paesi ma bensì di scontro tra interessi di grandi gruppi economico finanziari e i cittadini globali.Le TNC e le loro sussidiarie infatti al di là della sede giuridica e talvolta del nome(vedi FIAT), non hanno assolutamente nulla di nazionale( la FIAT già oggi ha il 75% della propria produzione fuori dal nostro paese), e non sentono alcun vincolo, di natura morale o economica nei confronti dello stato di origine.
É palese che ci troviamo in un mercato globale che è tutto fuorché libero: le grandi multinazionali, cresciute sotto l’ombrello della nazione, vissute in mercati protetti, sostenute ancora oggi attraverso investimenti statali, non solo non riconoscono più nessun legame nei confronti della collettività( intesa tanto in senso locale che globale), ma soprattutto intendono stabilire esse stesse le regole su cui fondare la società contemporanea.Questo quadro non ci pare affatto quello descritto da John Stuart Mill in Sulla libertà o da Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni, quando ci viene presentato il funzionamento di un mercato perfettamente concorrenziale; ovvero un mercato in cui, ricordiamolo bene, le imprese vendono un prodotto omogeneo e non sono sufficientemente grandi per influire in alcun modo sul prezzo del prodotto. Perciò al di là delle ingannevoli ma purtroppo seguitissime “teorie” dei rappresentanti delle grande industrie e dei manager di turno, l’economia moderna non è affatto libera e loro sono tutto tranne che liberali.Si potrebbero ora fare alcune considerazioni di carattere etico e magari ricordare amministratori di grandi aziende come Enrico Mattei, la cui attività fu tutta concepita al fine di tutelare gli interessi nazionali oppure come Adriano Olivetti, il teorico dell’impresa responsabile.Tuttavia questo tipo di argomentazioni risulterebbero pressoché inutili al fine di modificare l’attuale quadro economico globale.
Nei paesi occidentali a pagare le conseguenze di questo stato di cose, in termini di reddito, diritti e talvolta dignità, sono in primo luogo i giovani.Le nuove generazioni infatti, non possiedono più alcuna tutela al loro ingresso nel mercato del lavoro; nessun contratto nazionale li protegge, nessun sindacato li assiste.Il contratto imposto ai lavoratori di Mirafiori(contro cui continueremo a batterci), nonostante rappresenti un chiaro passo indietro sul piano dei diritti e della rappresentanza sindacale, è comunque un miraggio per le decine di migliaia di giovani che oggi iniziano il loro percorso lavorativo.Chi è abituato a convivere con contratti di lavoro in affitto o in somministrazione, intermittente, ripartito o a prestazione occasionale, la sua “Pomigliano” la vive ogni giorno.Sebbene non intendiamo disconoscere il ruolo storico del sindacato nel nostro paese, dobbiamo constatare che le associazioni di categoria ben poco hanno fatto per difendere le nuove generazioni, preferendo sempre privilegiare gruppi molti meno numerosi di lavoratori e spesso assai più tutelati dal punto di vista normativo.Talvolta il sindacato ha risposto a interessi esclusivamente propri e corporativi, portando avanti politiche del lavoro ormai superate.
Bisogna essere onesti: la battaglia per cambiare l’attuale indirizzo della politica economica globale non è affatto facile da vincere.In primo luogo occorre battersi su un piano culturale, e lottare affinché si ristabilisca un principio sancito dalla Dichiarazione di Philadelphia del 1944: il lavoro non è un merce.Viceversa esso è una parte integrale e integrante del soggetto che lo presta, dell’identità della persona, dell’immagine di sé, del senso di autostima.Nel nostro paese è necessario sempre ricordare alcuni articoli della nostra costituzione:il 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, art .41 “l’iniziativa economica privata(…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, art. 46 “Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge alla gestione delle aziende”.Come detto precedentemente il problema del lavoro e della flessibilità è un problema mondiale, e perciò ha bisogno di soluzioni internazionali.La politica globale, se non fosse com’ è oggi supina ad interessi particolari invece di interessarsi alle necessità collettive, dovrebbe perseguire un chiaro obiettivo:far salire il livello, delle retribuzioni (a parità di costo della vita ) e dei diritti dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo, parificandoli a quelli dei lavoratori occidentali, così da permettere l’instaurarsi di una competitività sana e non distorta come invece è quella attuale.Questo processo non è sicuramente facile, tuttavia esistono alcuni mezzi con cui in un medio-lungo periodo si potrebbe modificare l’attuale edificio economico mondiale.In primo luogo è necessario che le organizzazioni internazionali accertino e perseguano legalmente le responsabilità delle grandi corporations( o delle loro sussidiarie), nell’ambito della violazioni dei diritti umani e dei lavoratori, tanto nei paesi in cui hanno sede giuridica quanto nei paesi in cui operano.É necessario introdurre nuovi parametri nelle modalità di finanziamento dei progetti industriali promossi da FMI e BM, al fine di garantire e uniformare universalmente salari e diritti.Occorre promuovere codici di responsabilità etica e sociale delle imprese, che contengano l’impegno di omologare, tenuto conto dei differenziali di produttività e del costo della vita, condizioni di lavoro dei propri dipendenti in tutte le loro sedi.Sviluppo di enti nazionali e internazionali che si occupino di dare impulso alla crescita dei cosiddetti “investimenti responsabili”.
Naturalmente la natura di tali interventi è sovranazionale; nel nostro paese allo stesso tempo occorre portare avanti una generale revisione della legislazione sul lavoro, nella quale partendo dagli articoli della costituzione sopracitati, si introducano nuove regole sulla rappresentanza sindacale( sul modello della proposta di legge elaborata dal Dipartimento Lavoro dell’Italia dei Valori in accordo con la FIOM), si “legalizzi” la figura/classe sociale del precario( con la creazione di adeguati ammortizzatori sociali e processi di formazione: è utile ricordare che l’Italia spende solo l’1,4% del PIL in politiche del lavoro, contro il 4,5% della Danimarca ad esempio), si permetta la nascita di forme d’impresa in cui realmente i lavoratori possano partecipare democraticamente ai processi produttivi, condividendo i rischi e allo stesso tempo gli utili delle attività imprenditoriali.
Noi giovani per primi dobbiamo coltivare una nuova idea di progresso, basato sullo sviluppo sostenibile, su uno stato efficiente, sull’impresa responsabile, su nuovi modelli di consumo, su una legislazione del lavoro moderna e trasparente, in cui siano chiari i doveri e i diritti dei lavoratori.Un progresso che rimetta al centro il Lavoro, di qualsiasi natura esso sia, purché contribuisca alla creazione di una società in cui il libero sviluppo di ognuno sia la base del libero sviluppo di tutti.
Globalizziamo l’economia, globalizziamo i diritti…..